Abbiamo chiesto a Licia Tumminello di parlarci brevemente del suo ultimo libro uscito per Panda Edizioni. Vediamo cosa ci ha risposto:
Come è nata l’idea di questo libro?
Sono andata via dalla Sicilia nel 1990, un po’ per amore e un po’ per disperazione, trasferendomi al Nord, e solo dopo parecchi anni ho sentito, forte, il bisogno di riappacificarmi con la mia terra. Ho ritenuto che il modo migliore, e a me più confacente, fosse scrivere; così sono tornata con la memoria alla numerosa e variegata famiglia materna, costituita da ben tre generazioni, le stesse – genitori, figli e nipoti – che sono rappresentate nel mio romanzo, e ho visitato, con uno sguardo nuovo, i luoghi dove ho ambientato il romanzo.
Come mai hai scelto di ambientare l’opera negli anni Sessanta in Sicilia?
Gli anni Sessanta, la fine di quegli anni per la precisione, sono quelli della mia fanciullezza. Volendo raccontare, nel romanzo, di conflitti generazionali e amori contrastati, della crisi di una famiglia dove si scontrano una mentalità tradizionalista e nuove nascenti pulsioni, il 1968 mi è sembrato l’anno migliore in cui ambientare la storia. Il ‘68 è stato infatti un periodo di grandi cambiamenti: pensiamo alle proteste studentesche, che – con diverse modalità – vivono due protagoniste del libro, alla diversa visione dei ruoli all’interno della famiglia, all’emancipazione femminile. In Sicilia tutto ciò era reso più arduo e complesso dalla presenza di una forte tradizione patriarcale e di radicate consuetudini. Non potevo poi non menzionare il terremoto del Belice, che tanta devastazione e miseria ha portato nella Sicilia occidentale. È nato così “Undici Giorni”, storia di una famiglia siciliana, che vive tra Palermo e Salaparuta nella prima metà del mese di gennaio del 1968.
Come è nata la galassia di personaggi della famiglia Accardo?
La famiglia Accardo assomiglia alla grande famiglia materna della mia infanzia. I miei nonni hanno avuto otto figli. Ci si riuniva ogni domenica, a pranzo, come è narrato nel libro da Rosetta, la nipote undicenne. Non eravamo mai meno di quindici persone! Posso dirvi che il capitolo del pranzo della domenica è l’unica parte strettamente autobiografica del Romanzo.
Come prassi delle famiglie in Sicilia, frequentavo molto la casa dei miei nonni, e quindi ho avuto modo di osservare le diverse mentalità: quella tradizionale, patriarcale dei nonni, quella conservatrice dei figli più grandi, tra cui mia madre, e quella aperta e persino spregiudicata delle zie più giovani. È stato un materiale prezioso per costruire la psicologia dei miei personaggi e narrare le loro vicissitudini, che porteranno all’irreversibile perdita degli equilibri di una famiglia tradizionale, borghese e, all’apparenza, serena, qual è appunto la famiglia Accardo, che definirei la principale protagonista del mio romanzo.
Descrivici la sensazione di tenere il libro per la prima volta tra le mani…
Quando ho aperto il pacco postale e ho tirato fuori il libro, non mi sembrava neanche mio. Me lo sono rigirato tra le mani, poi ho realizzato… ed è stata una grande emozione. Ma l’emozione più grande la provo quando lo vedo in mano altrui, o ricevo foto di amici e conoscenti con in mano il mio libro! Eh sì, perché – come un figlio ormai adulto – , così il manoscritto, nel momento in cui diventa “libro”, è consegnato alla collettività, e non ci appartiene più.
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